Teatro di guerra

Tu morto sei lo strappo nel sipario la rosa inclinata fino a far dubitare della verticalità dell’aria
la vertigine che si rinnova
senza notizia, il nodo
che altri chiamano corpo. Tu nell’altra parte del tempo
(…)
il tuo inchinarmi fino
alla devozione dell’assenza
senza prove; tu mi misuri
ora su metro
di unità ignota:
uscita dalla superstizione
della tua presenza, entrata
nella pioggia.
— Chandra Livia Candiani

In un momento storico in cui ci viene ricordata frequentemente la fragilità del progetto Europeo, il Sentiero della Pace non può e non deve ridursi a una semplice “passeggiata” in montagna. Esso è la sintesi di una geografia di guerra ed è un patrimonio storico unico in Europa, ma difficile da fruire per la sua estensione e ricchezza, difficile da immaginare anche per chi conosce le vicende della Grande Guerra. Non è un sentiero tipico di montagna, ha delle parti che potremmo definire “innaturali” per la sua natura di sentiero di guerra.
Ci vengono incontro un numero irragionevole di resti: un centinaio tra forti, musei e cimiteri legati al primo conflitto mondiale, migliaia di chilometri di trincee e gallerie. Ma come dare un senso a questi resti?

La Grande Guerra è stata la prima guerra moderna, con carri armati, aerei, mitragliatrici e una forte propaganda. Una guerra dove l’efficienza dei trasporti (di uomini, merci, acqua e armi) e la produzione industriale (di armi ed equipaggiamento), e non l’abilità in battaglia, avrebbero incoronato il vincitore.
Combattuta da poveri diavoli, carne da macello nelle mani di una gerarchia militare che non capiva i cambiamenti del proprio tempo. Questi uomini vissero notte e giorno per quattro anni nella terra – fredda, bagnata, sporca – della trincea. Molti morirono di malattia. Tanti furono bombardati, fucilati, e persino avvelenati. Se possiamo capire il dolore della perdita a di un singolo uomo, a cui dare un nome e un volto, possiamo capire la perdita di 650 mila italiani? Possiamo immaginarne 100 mila morti in prigionia nei campi di concentramento? Possiamo sentire vicini 950 mila feriti e 452 mila invalidi di guerra? La guerra di cento anni fa, chiamata spesso “macello” o con una parola più gentile “mietitura”, è irrappresentabile per la sua durezza, la sua smisurata atrocità e la sua lontananza da noi. Dice Rigoni Stern: “Per i giovani è più lontana della luna”.

Nella visita al Museo Storico della Guerra di Rovereto ho visto centinaia di reperti, come le maschere a gas fatte di semplice tela, gli zainetti dei soldati che sembrano cartelle di scuola, o i rosari creati con i bozzoli dei proiettili sparati. Ma un oggetto mi ha colpito più di tutti: non le bombe grandi quanto la coscia di un uomo, ma una mazza ferrata piena di chiodi con cui i soldati colpivano la testa dei loro nemici storditi dai gas. Ecco: accanto alle armi chimiche, alle mitragliatrici, ai prodigi della tecnica (così crudelmente innovativa), ecco una mazza medioevale e un gesto omicida primitivo.

Quando cammino sul sentiero le rovine sono silenziose, inghiottite da una rigogliosa vegetazione. Le guide si premurano di dirmi che queste cime erano aride sassaie durante la guerra, stravolte dai soldati e dalle bombe. “Una foresta può crescere in soli cento anni”, mi dico. La bellezza del paesaggio naturale e il romanticismo delle rovine che vediamo oggi sono quindi molto distanti dallo scenario in cui hanno vissuto e combattuto dal 1915 al 1918 i soldati italiani e austriaci in Trentino. Il mio progetto fotografico non nascerà dall’ammirazione per le imprese eroiche e per la tecnica utilizzata, né può perdersi nella bellezza romantica di questi luoghi. Quello che cerco è il senso delle cose. Ma tutto quello che vedo mi stupisce e mi confonde aumentando il mio senso di disorientamento.

La prima guerra mondiale nella mia mente era sfocata e in bianco e nero perché così erano le foto che ho visto. Arriva come una sorpresa imbattersi nei colori pastello (come il rosa o l’azzurrino) del camouflage dei forti del Tonale, oppure nel giallo fosforescente di un esplosivo, nel grigio azzurro delle divise, nelle piume verdi sgargianti dei cappelli di alcuni ufficiali.
Quando guardo costruzioni come Forte Garda (classe 1907) , oppure alcuni oggetti nei musei, non faccio che pensare al cartone animato degli anni ‘80 Nausicaa nella Valle del Vento di Hayo Miyazaki, che visitò questi luoghi e ne trasse ispirazione per alcuni dei suoi lavori di fantascienza. In un bizzarro e ironico dejavù, queste forme del passato coincidono con la mia rappresentazione di un futuro apocalittico, come lo immaginai da adolescente guardando quel film giapponese.

Nausicaa sono io. Sono io a camminare tra il passato e il futuro tra rigogliose foreste, tra costruzioni bombardate e distrutte, tra abiti antichi che sembrano vecchi costumi di scena. Il sentiero è una traccia che rivela e al tempo stesso nasconde gli eventi tragici della guerra e le conseguenze che essa ha portato con sé. Non solo le battaglie, ma anche i lutti, le grandi mobilitazioni, la crisi economica, i recuperanti, l’abbandono delle malghe, le ricostruzioni dei paesi, l’impegno civile del recupero, l’arrivo della cultura italiana, le imprese architettoniche di restauro…
I segni di quello che è successo sono tanti, eppure insufficienti. Mi dicono che il sentiero permette di attraversare il tempo camminando. Ma come farò a portare in questo viaggio la mia macchina fotografica, che vede solo la superficie attuale delle cose?

Oggi ho scattato la foto numero 1663. È una mitragliatrice appoggiata su un fondale bianco all’interno dei magazzini del Museo Storico della Guerra di Rovereto. Invece che fotografarla da vicino ho deciso di allontanarmi e riprendere tutta la stanza, comprese le luci da studio e i bordi e le pinze del fondale. Sono tornata a casa e ho riguardato tutto il lavoro fatto da agosto fino ad ora. Mi viene in mente un’espressione: teatro di guerra. Con questo modo di dire comunemente si intendono i luoghi dove si svolgono degli scontri militari. Ma il teatro è anche performance, rievocazione, racconto e memoria. È il modo in cui il sentiero mi è apparso, immobile ma attivabile attraverso la narrazione della sua storia e attraverso la mia immaginazione. È il mio tentativo di ridargli vita e renderlo comprensibile. Così una parola fragile e traballante come memoria diventa presenza.

Nausicaa Giulia Bianchi
www.giuliabianchi.com

Interno di Forte Belvedere, Riva del Garda.

Ritratto di Laura Casarotto Romer, segreteria didattica del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto.

Ritratto di Nicola Fontana, conservatore archivio storico del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto.

Camicia di un soldato WW1 esposto alla mostra La Gran Vera, a Moena.

Zaino austriaco in pelle di mucca, Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto.

Shrapnel austriaco, Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto.

Interno di Forte Pozzacchio, Rovereto.

L’attore Michele Comite durante uno spettacolo di rievocazione storica all’interno di Forte Mero, Tonale.

Deposito di Forte Colle delle Benne, Lago di Levico.

Quel che resta delle cucine del forte Tagliata del Ponale, Riva del Garda.

Veduta notturna del cimitero militare austriaco Slaghenaufi, Lavarone.

Veduta notturna del tetto di forte Garda sul Lago di Garda.