Mutazioni

I miei nonni sì che l’hanno combattuta questa guerra. Su fronti opposti. Uno è stato in Galizia e poi prigioniero in Siberia per l’Imperatore d’Austria, l’altro prima sul Carso, poi in Val di Ledro e infine sulle pendici del Monte Ortigara, per il Re d’Italia.

Dopo l’armistizio, con i paesi della Valsugana quasi rasi al suolo, nonno Carlo, che era venuto in Trentino per combattere coi fanti regi, ha sposato nonna Orsolina, divenuta solo allora “italiana”, mentre nonno Davide, combattente nell’esercito imperiale e prigioniero sul fronte russo, da reduce ha sposato nonna Maria dell’Altopiano di Asiago, suddita del Re.

Ma prima che i destini assegnati dalla macro-storia a parti nemiche si incrociassero, cosa avranno visto, i miei nonni, superstiti di un tempo che ha negato loro la gioventù, in cambio della miseria e dell’orrore del primo grande conflitto mondiale?

Cosa non hanno raccontato a noi nipoti, in quei lunghi silenzi in cui cadeva talvolta il loro pensiero? E cosa resta, a cento anni di distanza, di quel tempo sciagurato? Quali trasformazioni sono sopraggiunte nei luoghi teatro di indicibili massacri?

Queste domande mi hanno sempre accompagnato sulle montagne del Trentino, che ho frequentato per anni come guida alpina e fotografo, ma solo oggi mi rivelano, come un’epifania, una realtà complessa, dove l’ambiente mostra, a ogni piè sospinto, tracce indelebili della guerra e accoglie nuove generazioni di frequentatori, così lontane dai loro avi, negli scopi e nei modi.

È stata questa scansione temporale a guidare la mia ricerca, focalizzata sulle mutazioni intercorse nella presenza umana e nel paesaggio, dove gli eventi bellici più importanti del secolo scorso hanno aperto ferite che nemmeno l’azione inesorabile della natura ha ancora saputo sanare. Il lavoro fotografico ha per oggetto proprio la relazione tra i luoghi, profondamente segnati dalla storia, e chi li frequenta oggi, suscitando domande sulla consapevolezza o meno dell’unicità di quei posti.

Se la guerra del ’15-‘18 ha rappresentato la prima grande antropizzazione della montagna, oggigiorno si assiste ad una seconda colonizzazione, sulla spinta dalla crescente esigenza di benessere psico-fisico. Negli ultimi decenni la gente è tornata a frequentare la montagna in numeri che eguagliano le centinaia di migliaia di militari degli anni del conflitto: dove i soldati si infrattavano, per mesi o addirittura anni, sopravvivendo in vere e proprie città sotterranee, sommerse dal ghiaccio e dal fango, oggi gli appassionati di montagna esercitano le più piacevoli e salubri attività all’aria aperta, godendo fugacemente della bellezza di un ambiente naturale spettacolare, spesso coadiuvati da infrastrutture ludico-creative che ben poco hanno a che fare con le possenti e diffuse fortificazioni militari.

Sono mutati i costumi e il paesaggio: la pratica dello sci, che proprio in campo militare ha visto il suo primo sviluppo, ha fatto sorgere resort d’alta quota sulle cime panoramiche che gli eserciti avevano scelto per i lori osservatori; le tantissime teleferiche costruite negli anni della guerra per rifornire i fronti alpini sono alla base dell’odierna mobilità di seggiovie e ski-lift; dove piovevano bombe e scoppiavano mine, fino a modificare la silhouette delle montagne, è ricresciuta l’erba e, su quei pascoli rigogliosi, oggi si nutre il bestiame di ottime malghe.

Ma, soprattutto, lo spirito è cambiato: laddove sorgevano ospedali e cimiteri di guerra, ora giocano serene le famiglie; laddove gli eserciti procedevano in lunghe marce zaino in spalla, trekkisti e sky-runner fanno sport come in una palestra a cielo aperto; laddove giovani soldati scrivevano struggenti lettere a donne che non avrebbero più rivisto, coppie di innamorati si scattano teneri selfie.

Una sorta di “mutazione genetica” che aiuta a prendere le distanze dalla guerra, ma non deve ignorarne i solchi e i significati, pena l’aberrazione di pericolose velleità belliche e la trasformazione della montagna in un mero luna-park. La scarsa coscienza del senso dei luoghi, di cui la natura si sta lentamente riappropriando, apre infatti una serie di interrogativi etici sulla lezione che la storia ci ha dato e sulla conseguente necessità di conservare preziosa la memoria, per rendere omaggio ai milioni di giovani che hanno sacrificato la vita sui campi di battaglia, ma anche, e soprattutto, per favorire una “pace” consapevole e quindi più forte e duratura.

Progetti di sapiente restauro delle strutture, manutenzione e cura costanti dei manufatti, intelligente museificazione di reperti e documenti, attività culturali innovative e accattivanti che stimolino il confronto e il dialogo con l’altro, diverso da noi, rappresentano oggi il migliore baluardo contro l’odio che scatena i conflitti. Tutte iniziative che promuovono una fruizione della montagna profonda e leggera, capace di compensare stili di vita urbani superficiali e pesanti.

Questa è forse la declinazione ideale della “Pace” a cui è stato dedicato il Sentiero più tragico e bello d’Europa: vivere oggi gli spazi di morte di ieri, apprezzando gli stimoli che l’ambiente naturale offre copiosamente, ma con un occhio sempre vigile alle tracce dell’umana follia, aiuta a combattere l’idea della guerra, a rifiutarne nell’intimo la possibilità, optando per nuovi modi di godimento del creato.